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E' fatto di equilibrio, più che di tecnica, la relazione con un 'diamante' come Sinner: "Ogni atleta è un mondo a sé, non c'è un metodo assoluto che vada bene quindi per Jannik; serve creatività, perciò credo che allenare sia una specie di arte e non qualche cosa che si possa insegnare. Un coach ama aiutare gli altri, deve avere il giusto altruismo: ero un tennista medio, senza mezzi fisici importanti; per essere competitivo dovevo usare intelligenza e appunto inventiva, leggere meglio il gioco rispetto all'avversario in campo. Non mi sento un guru, ma un allenatore di tennis che ha una difficoltà: dire a un atleta quello che non ci piace di lui, e l'atleta è il tuo datore di lavoro. Così ho fatto con Jannik, man mano abbiamo preso confidenza e cercato l'equilibrio tra i risultati e il percorso: lui fa molte domande e talora pone dubbi, sa che deve essere un giocatore migliore; io sono onesto e lui deve avere fiducia".
Inedita la collaborazione a tre con Cahill: "Condividere un giocatore con un altro allenatore è una novità anche per me: Cahill ha ottenuto giocatori importanti e ottenuti risultati, molte cose le vediamo nella stessa maniera, ma serve nel complesso la giusta dose di elasticità ; fare un passo indietro, o dire la parola giusta, o intervenire al momento giusto. Il problema culturale odierno è ritenere che se a vent'anni non sei da Top – 10 hai fallito, ma nel tennis non vince chi fa il punto più spettacolare, ma chi ne accumula di più".
Getty ImagesSimone Vagnozzi