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Berrettini, l'urlo dopo il buio: "Riassaporo il tennis di quando ero bambino"

6 AGOSTO
TENNIS

Wimbledon ha rilanciato il romano: "Ho sbagliato a voler recuperare in fretta dai guai fisici, in un attimo tifosi sono diventati giudici. Gioco con il sorriso ripensando al Matteo bambino".

SPORT TODAY

Una lunga intervista a 'Il Corriere della Sera' mette a nudo Matteo Berrettini, che, dopo aver sfiorato il Paradiso due anni fa a Wimbledon ed essere precipitato all'Inferno psicofisico, ha ricominciato una nuova vita, anche da atleta, lavorando su se stesso.

"I miei genitori sono soci in un circolo e a tre anni mi sono ritrovato la racchetta in mano, ma non mi piaceva: volevo fare judo, arti marziali; mio fratello mi ha convinto che nel tennis c'è più divertimento che fatica e a otto anni ho ricominciato, è una malattia di famiglia, nonno a ottant'anni gioca ancora. Mi piace competere, mettermi alla prova, superare i miei limiti, per questo mi sono sempre divertito, nella fatica: quando a vent'anni sono andato in finale in un torneo Challenger ad Andria ho pensato che con il tennis avrei potuto pagare le bollette" spiega parlando del suo primo approccio con il tennis l'azzurro.

"Nel tennis ogni gesto è pensato, vissuto, sofferto: è uno specchio impietoso e per emergere devi riconoscerti; in campo il mio corpo e il mio cervello non hanno segreti per me. E' uno sport che insegna a perdere, la sconfitta è un motore più grande della vittoria: come spiegava Mandela, o si vince o si impara" evidenzia la lezione più importante ricevuta "Nell'ultimo anno ho subito molti strappi fisici e mentali, in alcuni momenti corpo e testa non erano allineati, chiedevo troppo all'uno, o all'altra; sbaglio, quando sono in difficoltà, a spingere di più. Non poter competere mi ha condotto nel buio, sono stati momentacci che ho superato assaporando la gioia delle origini; mi ha ferito non ricevere l'elementare sensibilità di coloro che mi avevano tifato sino poco prima, sono diventati giudici, oppure odiatori, ma sono stato dentro i social. La mia vita era una sequenza di doveri: ho provato a sentirmi bene, a scegliere di fare ciò che mi piace, con leggerezza".

E' uno sport in cui ogni gesto è meditato, prima e dopo, è uno sport in cui si è soli, a volte contro se stessi: "La condizione si trova giocando, ma se giochi troppo rischi: in questo sport sistema muscolare e mente sono condizionati da superficie (e velocità) del campo da gioco e viaggi (cambiamenti di clima e fuso); ora sto bene e quando scendo in campo ho il sorriso. Dovevo gustarmi più Wimbledon e le emozioni felici, ma il tennis e la vita della nostra società divora tutto.. Il mio team non mi vedeva pronto per Wimbledon, ma ha accettato la mia scelta quando mi ha visto così sereno e così determinato: il tennis è sempre testa, non bastano la tecnica, o il braccio, la paura è fondamentale per un tennista, se controllata. Il mio solo amico nel circuito è Sonego, ha una sensibilità rara nel tennis: quando mi ha battuto a Stoccarda mi ha fatto capire che era dispiaciuto di vedermi così, quando l'ho battuto a Wimbledon mi ha abbracciato e fatto capire che con me voleva giocare alla pari. L'obiettivo? Wimbledon e Roma".

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