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Quel giorno, racconta, invece di guardare la corsa svizzera è uscita per un evento di lavoro. “Che ci crediate o no sono stata nervosa tutto il giorno, non sapevo nemmeno il perché. Qualche ora dopo ho ricevuto dei messaggi che chiedevano come stava Gino, mi è stato detto che era caduto” racconta. Ma sul momento non ha dato peso alla cosa, le cadute fanno parte della vita di un ciclista. Tanto è vero che, come lei stessa ricorda, “quando qualcuno mi chiedeva se Gino avrebbe partecipato al Tour, ho sempre risposto che una cosa del genere non è mai certa. Una caduta e tutto potrebbe finire, queste furono le mie parole allora”.
“L'unico segno ben visibile era un taglio sopra la guancia, ma i danni cerebrali erano gravissimi e Gino non avrebbe potuto più respirare autonomamente. Quando il medico mi disse che mio figlio non sarebbe stato in grado nemmeno di dire ‘mamma’ e che sarebbe rimasto in quello stato per sempre, senza poter né parlare né camminare, capii che io e mio marito Andreas dovevamo solo scegliere quando e se staccare le macchine che lo tenevano in vita...”.
La signora Sandra, però, non cerca responsabili. “La colpa non è di nessuno. Pedalare in salita e in discesa fa parte del percorso. Anche chi va a lavorare in macchina corre dei rischi. La possibilità che un corridore abbia un incidente in allenamento è maggiore che durante una gara. Credo che fosse destino di Gino morire quel giorno. Due giorni dopo la sua scomparsa abbiamo visitato anche il luogo dell'incidente. Abbiamo raccolto i pezzi del suo casco e ci siamo sentiti legati a lui”.
Getty ImagesGino Mader