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L’arte di vincere, il bello del dietro le quinte

24 FEBBRAIO
Non solo Sport/Oscar

Tratto dal libro Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game (2003) di Michael Lewis, è un film sul baseball che racconta la storia dell’underdog tipicamente americano.

SPORT TODAY

Trailer L'arte di vincere

Tratto dal libro Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game (2003) di Michael Lewis, è un film sul baseball che ci ha conquistato perché racconta la storia dell’underdog tipicamente americano, capace di riscrivere la storia di uno dei sport più popolari negli USA grazie all’innovazione, allo spirito di adattamento e al “never give up” di chiara impronta statunitense.

 

Scheda 

Titolo originale: Moneyball 

Lingua originale: inglese 

Paese di produzione: Stati Uniti 

Anno: 2011 

Genere: drammatico, biografico, sportivo 

 

Trama

Reduci dalla bruciante sconfitta nei play-off con i New York Yankees nella stagione 2001 dopo essere stati in vantaggio per 2 a 0 nella serie, complice il monte stipendi più basso della lega gli Oakland Athleticsperdono le loro stelle Johnny Damon, Jason Giambi e Jason Isringhausen. 

Il loro General Manager Billy Beane (Brad Pitt) è quindi alla ricerca di un nuovo modo di competere contro le squadre più ricche e, durante un incontro di mercato con i dirigenti dei Cleveland Indians, conosce Peter Brand (Jonah Hill), neo-laureato in economia a Yale al suo primo incarico di lavoro e  con idee radicali sul come valutare i giocatori di baseball.

Beane mette così alla prova la teoria di Brand chiedendogli come lo avrebbe posizionato al draft, essendo stato una prima scelta nel 1980 con gli scout che lo reputavano un futuro campione anche se la sua carriera nella Major League si rivelò poi assai deludente: Brand ammette che non lo avrebbe mai chiamato prima del nono giro e che Beane avrebbe quindi continuato a studiare, evitando di passare professionista. 

Al termine di questo colloquio, Beane assume Brand come assistente GM e insieme iniziano a costruire la squadra sulla base delle statistiche di ogni giocatore, concentrandosi sul numero di volte che riesce ad arrivare in base, motivo per cui si crea una enorme frizione tra loro e gli osservatori, di fatto esautorati da ogni decisione.

All’inizio della nuova regular season gli Athletics viaggiano però con un record negativo e la tensione tra Beane e l'allenatore Art Howe, già alta a causa del mancato rinnovo del contratto in scadenza, cresce partita dopo partita con il coach sprezzante verso la nuova strategia e deciso a schierare la formazione a modo suo: è il momento più difficile perché tifosi e stampa chiedono la testa di Beane, sempre più a rischio licenziamento. 

Beane convince comunque il proprietario della squadra a mantenere questa strada e va all-in, scambiando i giocatori graditi al coach in modo che sia obbligato a schierare i suoi preferiti: è la svolta perché, insieme a Brand, aumenta inoltre l’interazione con la squadra rendendola sempre più partecipe del nuovo progetto al punto da conquistare 19 vittorie consecutive, ad un successo dal diventare la prima squadra nella storia a toccare quota 20. 

Come molti giocatori di baseball, Beane è superstizioso ed evita di vedere le partite, tuttavia sua figlia lo convince ad andare allo stadio quando Oakland è già avanti per 11-0 sui Kansas City Royals alla fine del terzo inning e appare lanciata verso il record di tutti i tempi: da quel momento, inizia però un incredibile harakiri degli Athletics che si fanno agganciare sull’11 pari prima del punto decisivo realizzato da Scott Hatteberg, scelto proprio dal duo Beane-Brand e osteggiato sin dal primo momento da coach Howe.

Dopo aver scritto una delle pagine più incredibili di questo sport, gli Athletics vengono poi eliminati al primo turno dei play-off dai Minnesota Twins, ma Beane viene ugualmente convocato dai Boston Red Sox che gli propongono un contratto principesco da 12,5 milioni di dollari a stagione per farlo diventare il GM più pagato nella storia dello sport e mettere così in piedi il suo metodo in una franchigia con disponibilità economiche pressoché illimitate;  Beane rinuncia per rimanere ad Oakland, ma i Red Sox vinceranno comunque le World Series due anni dopo proprio grazie alle sue teorie.

 

Riconoscimenti

Candidato in sei categorie dei Premi Oscar 2012 tra cui miglior film, miglior attore (Brad Pitt) e miglior attore non protagonista (Jonah Hill); candidato a quattro Golden Globes. 

Punti di forza

“L’arte di vincere” è un film ispirato ad una storia realmente accaduta che racconta come i freddi numeri possano essere utilizzati per compensare un sistema squilibrato dove le squadre più ricche vincono e si prendono i giocatori più forti a disposizione: riesce pertanto a mostrarsi agli spettatori come un attacco allo status quo, e la storia esalta in contemporanea la vita di chi, pur rimanendo dietro alle quinte del mondo sportivo, riesce ad imprimere nel proprio lavoro quotidiano un senso di profondo attaccamento al team per cui lavora, dimostrandosi aperto al cambiamento e alle novità per modificare dall’interno un sistema fossilizzato. In questo contesto, il film diventa anche la rappresentazione del percorso di due outsider: da una parte Billy Beane, ex giocatore professionista che ha vissuto una carriera di insuccessi, dall’altra Peter Brand, giovane brillante ma sottovalutato con cui condivide quello spirito di rivalsa nei confronti di un sistema che ha sconfitto il primo e messo ai margini il secondo. Due personaggi ottimamente raccontati dalle penne di Aaron Sorkin e Steven Zaillian e, soprattutto, interpretati con trasporto e maestria da due attori di altissimo livello come Brad Pitt e Jonah Hill.

La nostra opinione

Il film ha il valore aggiunto di essere strettamente collegato alla realtà, rappresentando una delle più incredibili storie sportive americane in cui l’underdog riscrive il libro dei record, ed è bellissimo vedere il dietro le quinte di quello che è accaduto realmente in quell’anno magico per gli Oakland Athletics: di solito, noi appassionati abbiamo infatti accesso soltanto a quanto accade in campo il giorno della partita mentre ci manca completamente il modo in cui viene costruita una squadra dal front office con le trattative tra i team, gli scontri tra dirigenza e allenatore, il modo in cui gli atleti vivono e affrontano lo stress della competizione.

Purtroppo per l’Italia, il baseball è uno sport poco seguito e compreso, per cui questo è rimasto un film di nicchia all’interno dei nostri confini con una pubblicità e una distribuzione limitata nonostante la presenza di una star planetaria come Brad Pitt nei panni del protagonista.

Oltre ai punti di forza precedentemente citati, ci ha emozionato tantissimo l’escalation di risultati della franchigia californiana con una partenza lenta e il cambio di marcia repentino dopo gli interventi sul mercato di Billy Beane che porta alla storica striscia dei 20 incontri vinti consecutivamente: il punto decisivo realizzato proprio dal giocatore sostanzialmente ritirato e seduto sul divano di casa prima che i freddi numeri di Peter Brand lo riportassero all’attività agonistica è davvero l’apoteosi di questo film, rappresentazione plastica di come la realtà possa spesso superare l’immaginazione. 

Fossimo stati al posto di Beane, non avremmo poi accettato di rimanere in California di fronte all’offerta faraonica dei Boston Red Sox, non tanto per una questione legata ai soldi bensì per la possibilità di misurarsi con una sfida completamente diversa e la prospettiva di creare una vera e propria dinastia, senza dimenticare che il proprietario degli Athletics non è apparso come un personaggio positivo, romantico e innamorato dello sport con la sua principale motivazione legata, invece, al proprio conto in banca e una empatia prossima allo zero.

L’unica nota stonata del film? Avremmo coinvolto di più nella trama il compianto attore Philip Seymour Hoffman, interprete dell’allenatore Art Howe, perché una sua maggiore presenza avrebbe reso ancora più indimenticabile il contrasto tra lui e il duo Pitt-Hill.

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